Perché non è sorprendente che l’ambasciata statunitense non sarà a Gerusalemme ovest

Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato una notizia secondo la quale la futura ambasciata statunitense non sarà localizzata a Gerusalemme ovest.

Sembra infatti che sarà insediata nel complesso che oggi ospita la sede consolare americana nella Città Santa, situato nella cosiddetta “No Man’s Land”, una sottile striscia di terra che, fino alla guerra del 1967, separava Gerusalemme est da Gerusalemme ovest.

Ciò vuol dire che si troverà in un’area “contesa”, occupata da Israele nel 1967 e, insieme alla parte orientale della città, successivamente dichiarata parte della “capitale unica e indivisibile” dello Stato ebraico. Come noto, tuttavia, l’unificazione di Gerusalemme sotto controllo israeliano è stata ripetutamente condannata e mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Questa scelta, che susciterà probabilmente un certo scalpore a livello internazionale, non è tuttavia sorprendente. Anzi, è una logica conseguenza della decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

Tale spostamento, infatti, significa il riconoscimento della sovranità israeliana su tutta la città – in linea con il punto di vista israeliano sulla vicenda, ma in contrasto con la posizione del resto della comunità internazionale.

E il riconoscimento della sovranità israeliana su tutta la città significa negare che esita una Gerusalemme est, una Gerusalemme ovest e una “No Man’s Land”. Queste sono tutte categorie desuete, che non hanno più alcun senso secondo la prospettiva israeliana (e, ora, anche statunitense) – in base alla quale, al contrario, esiste una sola Gerusalemme. Da questo punto di vista qualsiasi localizzazione interna ai confini municipali è equivalente.

A tal proposito, qualunque sia la propria posizione sulla decisione dell’amministrazione statunitense di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, va riconosciuta a Donald Trump la virtù dell’onesta intellettuale. Per cinquant’anni tutti i presidenti statunitensi hanno rifiutato di riconoscere formalmente l’occupazione israeliana della città tramite lo spostamento dell’ambasciata.

Tuttavia hanno sempre di fatto avallato le azioni che le autorità israeliane hanno messo in campo per rendere concreta tale occupazione, limitandosi al massimo a qualche timida condanna, priva di qualsiasi effetto pratico.

Come ho spiegato in un post precedente, queste azioni si sono incentrate principalmente sull’espansione della città ebraica nelle aree di Gerusalemme est, attraverso la costruzione di quartieri destinati esclusivamente a popolazione ebraica (oggi in questi quartieri vive circa il 40% dei residenti israeliani della città).

Queste azioni sono state la vera arma del conflitto: esse hanno fatto sì che oggi la città sia di fatto quasi completamente ebraica – e che, di conseguenza, l’opzione della ri-divisione lungo il perimetro del 1967 non sia più praticabile.

Per lo meno Donald Trump ha messo fine all’ipocrisia dei suoi predecessori che, rimanendo sempre all’interno dell’alveo del politicamente corretto, non si sono mai assunti la piena responsabilità delle proprie scelte.

Si noti tra l’altro che tutto ciò potrebbe avere, paradossalmente (e molto probabilmente involontariamente), anche degli esiti positivi rispetto a una soluzione condivisa del conflitto: la decisione di Donald Trump ha infatti obbligato la comunità internazionale (compresi i palestinesi) a prendere atto della realtà sul campo, abbandonando un quadro – quello della città divisa e divisibile – comodo, consolatorio ma ormai inattuale da diversi decenni e deleterio dal punto di vista politico, perché non ha permesso un vero avanzamento della discussione rispetto al futuro della città.

(Pubblicato su Huffington Post Italia)

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