Le mani sulla città

In queste ore il mondo romanista è in fibrillazione: sono trapelate alcune notizie relative al progetto preliminare del nuovo stadio dell’A.S. Roma, a Pietralata. Il progetto coronerebbe il sogno decennale della tifoseria di avere un’arena degna del più blasonati club calcistici europei. Se tale eccitazione è comprensibile, un certo grado di scetticismo è d’obbligo: come molti ricorderanno, il precedente progetto – ambiziosissimo nei contenuti e annunciato in maniera roboante dalla società – si è sfracellato sulla scogliera di un’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto un noto costruttore romano, alcuni funzionari pubblici e diversi politici, tra cui esponenti di punta dell’amministrazione pentastellata guidata da Virginia Raggi.

In quell’inchiesta la magistratura aveva puntato il dito contro svariate pratiche illecite che avrebbero punteggiato il processo di approvazione del progetto dello stadio a Tor di Valle. Scriveva la magistratura, in relazione al gruppo immobiliare coinvolto, che la corruzione era divenuta un vero e proprio “modus operandi di regola utilizzato nello svolgimento dell’attività di impresa”, considerata fin da principio una prassi “indispensabile per la realizzazione di qualsivoglia progetto”.

A qualche cinefilo attempato simili parole ricorderanno un celeberrimo film di Francesco Rosi, Le mani sulla città, con il quale il regista vinse nel 1963 il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. In quella pellicola Rosi raccontava magistralmente il malaffare, la corruzione e il clientelismo che caratterizzavano molti progetti di sviluppo immobiliare di quegli anni, in un’Italia percorsa da una poderosa crescita edilizia.

Quel film è rimasto un’eccezione nel panorama cinematografico italiano, che da allora non si è più cimentato con efficacia con questo argomento. La cosa non è sorprendente: la corruzione nello sviluppo urbano è un tema poco attrattivo, rispetto al quale non è certamente facile costruire una pellicola di successo. Ciò che è sorprendente è invece l’indifferenza accademica nei confronti dell’argomento: nelle lauree di architettura e urbanistica in Italia, tra le centinaia di corsi erogati, non ce ne è uno solo destinato ad analizzare il rapporto tra sviluppo urbano, urbanistica e malaffare.

Non è chiaro quali siano i motivi di questo disinteresse. Sicuramente, non può essere annoverata l’irrilevanza delle pratiche illecite – e, in particolare, della corruzione – in campo urbanistico ed edilizio, come testimoniato periodicamente da inchieste giudiziarie e cronache giornalistiche.

Ma perché lo sviluppo immobiliare è un campo tanto funestato dalla corruzione? La ragione principale è da cercarsi nelle caratteristiche strutturali dell’attività imprenditoriale in campo edilizio. Il successo economico di un’iniziativa edilizia dipende sempre – e, talvolta, soprattutto – dalle deliberazioni pubbliche in campo urbanistico. È infatti la Municipalità che decide dove, cosa e quanto si può costruire sul suo territorio, influenzando profondamente, in questo modo, i margini di profitto dell’operazione. Questa semplice caratteristica è, di per sé, un enorme incentivo al fatto che, sull’autorità pubblica competente, si abbattano fortissime pressioni (anche illecite) volte a plasmare la scelta urbanistica nella forma più favorevole all’imprenditore immobiliare di turno. A peggiorare il quadro contribuisce una peculiarità delle decisioni urbanistiche: la loro radicale discrezionalità. Nella maggior parte dei casi, infatti, non esistono ragioni tecniche decisive per giustificare una certa scelta urbanistica. Detto in altre parole, l’urbanistica non è una “scienza dura”, che stabilisce connessioni inderogabili tra un certo problema (per esempio, la presenza di un’area industriale abbandonata) e una certa decisione (per esempio, la “rigenerazione” di quell’area a suon di grattacieli e appartamenti di lusso). Le scelte in materia di uso del suolo sono frutto di interpretazioni, congetture, valori, domande senza risposta, risposte parziali e contingenti. Come tali, possono essere facilmente e profondamente influenzate da ragioni che non hanno nulla a che vedere con il sapere urbanistico.

In sintesi, proprio perché l’urbanistica è un campo caratterizzato da scelte altamente discrezionali che hanno ricadute economicamente rilevanti è strutturalmente permeabile a diverse pratiche illecite, tra cui, in primis, la corruzione. E ciò vale tanto per progetti ambiziosi, come la costruzione di un nuovo stadio di calcio, quanto per interventi modestissimi, come l’edificazione di un’anonima palazzina residenziale.

Pochi sanno che Francesco Rosi, grazie a “Le mani sulla città”, non solo ha vinto il Leone d’Oro a Venezia, ma ha ottenuto anche la laurea honoris causa in architettura presso il Politecnico di Torino. Nonostante ciò, in apertura del film citato, ha inserito una didascalia che recita così: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Tale didascalia, però, rischia di suggerire un’idea erroneamente parziale, ossia che il malaffare nel campo dello sviluppo immobiliare descritto nella pellicola fosse il frutto dell’intersezione di un problema contingente (ossia, la feroce speculazione immobiliare in quel periodo di impetuoso sviluppo urbano del paese) con una questione di matrice etico-individuale (ossia la mancanza di scrupoli di certi palazzinari). Non è tuttavia così. Allora come oggi, il vero problema è un altro: i modi in cui è concepita e praticata l’urbanistica forniscono colossali incentivi e spazi di agibilità a pratiche corruttive. Non si tratta, quindi, di un problema di matrice principalmente sociale e ambientale, bensì di un problema istituzionale – ossia di configurazione di un’attività pubblica com’è l’urbanistica.

[Pubblicato su Huffington Post Italia 14.10.2022]

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