Uno stato per due popoli in Israele/Palestina

Pochi giorni fa dodici stati europei, tra cui l’Italia, hanno rilasciato l’ennesima dichiarazione che censura l’ennesimo piano di espansione residenziale israeliana nei territori palestinesi occupati.

Ormai simili dichiarazioni non si guadagnano più nemmeno un trafiletto sui quotidiani italiani. E non c’è da stupirsene. Sono infatti tanto numerose quando irrilevanti, visto che le politiche di colonizzazione israeliana dei territori occupati non si sono mai fatte rallentare (né tantomeno fermare) dalle dichiarazioni della comunità internazionale. E chi pensava che il cambio della guardia alla Casa Bianca avrebbe temperato i progetti espansionistici israeliani si è dovuto presto ricredere.

Se durante la propria amministrazione Donald Trump ha garantito un incondizionato appoggio alle politiche coloniali israeliane – plasticamente rappresentato dalla decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – Joe Biden sembra aver scelto la strada della non-ingerenza nelle questioni israelo-palestinesi. Il risultato è che l’espansione israeliana nei territori palestinesi prosegue indisturbata. Nel giro di poche settimane potrebbero essere approvate nuove imponenti edificazioni ebraiche a Gerusalemme Est – che è un territorio occupato da Israele e abitato da centinaia di migliaia di palestinesi. Queste ultime, insieme a quelle varate pochi giorni fa, costituirebbero una delle più imponenti ondate di colonizzazione ebraica della città degli ultimi 30 anni. 

 — In blu le aree di nuova edificazione ebraica a Gerusalemme Est —

Il termine “colonizzazione”, ripetuto più volte in queste prime righe, potrebbe suonare desueto. In verità è l’unico termine appropriato per descrivere precisamente l’azione israeliana nei territori palestinesi. In sintonia con i processi coloniali dei secoli passati, a partire dal 1967 lo stato di Israele ha ininterrottamente espanso la propria presenza fisica e il proprio dominio su territori che, secondo il diritto internazionale, non gli appartengono. L’esito di questi 54 anni di colonizzazione, chiaro in qualunque angolo della Cisgiordania, diviene plateale a Gerusalemme.

La Città Santa è passata dall’essere nel 1967 una città divisa – per metà controllata e abitata da israeliani (Gerusalemme Ovest) e per metà controllata e abitata da palestinesi (Gerusalemme Est) – all’essere oggi una città quasi interamente israeliana. Oggi le aree ebraiche si estendono senza soluzione di continuità tanto a Gerusalemme Ovest quanto a Gerusalemme Est, con qualche sporadica interruzione costituita dai quartieri palestinesi, per lo più poveri e degradati. 

A fronte della terribile efficacia e apparente inarrestabilità del processo di colonizzazione israeliana, viene da chiedersi se abbia ancora senso parlare della possibilità di creare in Israele/Palestina due stati (per due popoli). Quello della “soluzione dei due Stati” è un mantra decennale. C’è tuttavia chi sostiene che sia tempo di fare un passo oltre, semplicemente perché questa opzione non è più praticabile in forme accettabili, proprio per effetto di mezzo secolo di colonizzazione israeliana. Continuare a parlare della ridivisione di Israele/Palestina (e di Gerusalemme) più o meno lungo il perimetro della cosiddetta Linea Verde – il confine che separava Israele dai territori palestinesi prima della guerra del 1967 e della successiva occupazione israeliana della Cisgiordania – non solo non ha più senso, ma rischia di essere deleterio. Ostacola infatti l’emergere di altre proposte.

Tra queste, quella sostenuta da una rete di intellettuali, accademici e attivisti israeliani e palestinesi (riuniti sotto lo slogan di One State Campaign) è la creazione di un unico stato democratico nell’intero territorio di Israele/Palestina. Su questo territorio, infatti, c’è già de facto un unico stato che governa. Ed è quello israeliano – l’autorità palestinese è talmente limitata in termini di potere e aree controllate da essere quasi insignificante. Ma lo stato israeliano che oggi governa Israele/Palestina non è uno stato realmente democratico. Si tratta – per usare le parole di un noto studioso israeliano, Oren Yiftachel – di una etnocrazia, ossia di uno stato che garantisce e promuove la supremazia e il dominio di un gruppo (gli ebrei-israeliani) su un altro (gli arabo-palestinesi). Ciò avviene tanto all’interno dei confini legittimi di Israele (in cui gli arabo-israeliani sono cittadini di seconda classe da molti punti di vista), quando all’interno dei territori palestinesi occupati.

È su questo sfondo che il nuovo orizzonte politico per chi vuole una soluzione pacifica e giusta per quella terra dovrebbe essere la costituzione di un’unica democrazia costituzionale in Israele/Palestina, che assicuri a tutti i cittadini uguali diritti, libertà e sicurezza, senza discriminazione alcuna basata su etnia, appartenenza culturale o altro. Uno stato che garantisca la protezione dei diritti dei diversi gruppi che abitano l’area, senza che alcun gruppo ne controlli o domini un altro. Uno stato che cerchi di garantire giustizia economica e sociale per gruppi (gli ebrei-israeliani e gli arabo-palestinesi) che partono da una situazione economica radicalmente squilibrata – anche e soprattutto a causa dell’occupazione militare israeliana. È sicuramente una soluzione politica non facile da attuare (ma quale lo è?).  Tuttavia, per lo meno, delinea una prospettiva di uscita, possibile e giusta, dal vicolo cieco nel quale la colonizzazione israeliana ha cacciato le prospettive di pace nell’area. 

[Pubblicato su Huffington Post, 05.11.2021]

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