Qualche giorno fa, durante la campagna elettorale per le imminenti elezioni politiche in Israele, il premier uscente Benjamin Netanyahu ha dichiarato che, se diventerà primo ministro per la quinta volta, annetterà a Israele le colonie edificate in Cisgiordania (successivamente ha dichiarato la volontà di fare altrettanto con la valle del Giordano). Queste dichiarazioni hanno il sapore della mossa sapiente di un politico esperto in un momento di difficoltà (anche per questioni giudiziarie). Non sono tuttavia implausibili, visto che oggi la maggior parte delle colonie israeliane è già, sotto molti punti di vista, parte integrante del territorio israeliano – per quanto in violazione di convenzioni internazionali, in spregio di risoluzioni delle Nazioni Unite e a dispetto di ogni retorica pacifista. Ecco perché.
Le colonie israeliane sono costituite talvolta da piccoli agglomerati residenziali, talvolta da vere e proprie cittadine autonome che possono raggiungere una popolazione di alcune decine di migliaia di residenti (Modi’in Illit ne conta per esempio 70.000) e che comprendono centri commerciali, aree industriali, ospedali e altri servizi pubblici (nelle colonie è stata aperta anche un’università, quella di Ariel, nell’omonimo insediamento). La costruzione di queste colonie da parte della autorità israeliane è cominciata immediatamente dopo la guerra del 1967 sui territori palestinesi occupati della Cisgiordania e non si è mai interrotta.
Complessivamente si tratta di circa 130 insediamenti (esclusi quelli ubicati a Gerusalemme Est), riconosciuti come legittimi soltanto dallo stato di Israele e considerati da quest’ultimo, di fatto, parte integrante del proprio territorio. Per questo, come in ogni altra municipalità del proprio territorio, le autorità israeliane si occupano di costruire servizi e infrastrutture e garantiscono trasferimenti econoimci al governo locale (in media, le colonie beneficiano di finanziamenti doppi rispetto alle municipalità “ordinarie” ubicate all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele). A questi insediamenti “ufficiali” si aggiungono 130 “avamposti”, agglomerati più piccoli, formalmente illegali anche in base alle leggi israeliani, ma, nonostante ciò, supportati in vari modi dalle autorità pubbliche (alcuni di questi sono stati “legalizzati” o sono in procinto di esserlo).
Tutte queste colonie sono edificate nel territorio palestinese della Cisgiordania, motivo per il quale la loro costruzione è stata più volte condannata dalle Nazioni Unite. Vi abitano circa 620.000 persone (circa 200.000 delle quali a Gerusalemme est), pari a circa il 7% dell’intera popolazione israeliana. La popolazione delle colonie è in costante aumento, con tassi di crescita quasi doppi rispetto ai “normali” territori israeliani.
La popolazione che risiede nelle colonie è eterogenea. Molte sono abitate da veri e propri “fanatici”, nazionalisti o religiosi iper-radicali che considerano il fatto di vivere nelle colonie un vero e proprio atto politico (o religioso): la rivendicazione della sovranità israeliana ed ebraica sui territori palestinesi. Sono questi fanatici che di solito creano i cosiddetti “avamposti”, a dispetto dei rischi che ciò implica. Gli avamposti sono inizialmente piccoli assembramenti di caravan, localizzati nel bel mezzo del territorio palestinese, per lo più sulla cima di un’altura (per ragioni di sicurezza); i loro abitanti vi vivono asserragliati e armati, senza servizi e infrastrutture, nel tentativo – solitamente di successo – che l’avamposto venga in breve tempo stabilizzato, grazie all’arrivo dell’esercito a proteggerlo, di altri coloni a popolarlo, dello stato a fornire servizi e infrastrutture.
Le colonie non sono tuttavia abitate sempre e solo da fanatici religiosi o nazionalisti, ma anche da persone “laiche”, che vi si trasferiscono per ragioni di carattere squisitamente materiale. La ragione principale di questa scelta è rappresentata dalle allettanti peculiarità del mercato immobiliare delle colonie: qui, infatti, le abitazioni sono molto economiche, soprattutto se comparate alle aree all’interno dei confini internazionali di Israele. Per fare un esempio, una casa che a Gerusalemme costerebbe 500.000 dollari, ne costa 360.000 a Ma’ale Adummim e 230.000 a Betar Illit. Sia Ma’ale Adummim sia Betar Illit sono colonie situate a ridosso dei confini di Gerusalemme, dalle quali si può raggiungere la città in una manciata di minuti d’auto. Allontanandosi di più, i prezzi crollano. Il motivo principale di prezzi così bassi è legato non tanto allo status “conteso” delle aree su cui le colonie sorgono, quanto al fatto che questi insediamenti sono edificati su terreno che, ai coloni, solitamente non costa nulla, essendo stato da loro occupato illegalmente o requisito dall’esercito israeliano ai legittimi proprietari palestinesi. La seconda ragione che rende queste aree materialmente attrattive è costituita dall’elevata qualità urbana: si tratta infatti, nella maggior parte dei casi, di paesini e cittadine molto ben infrastrutturate e con ottimi servizi pubblici, garantiti dagli abbonanti finanziamenti pubblici. La terza ragione è il fatto che tutte le colonie sono perfettamente collegate al resto di Israele tramite un denso sistema di strade dedicate al solo traffico veicolare israeliano, su cui si può viaggiare velocemente e in piena sicurezza – e senza incrociare alcun palestinese, a cui l’accesso a queste strade, le cosiddette bypass roads, è proibito. Dunque, si può tranquillamente abitare in una colonia nel profondo della Cisgiordania – per esempio, nei pressi di Gerico – e a lavorare o studiare a Gerusalemme, per raggiungere la quale ci si mette non più di mezz’ora d’auto.
Questi insediamenti sono la gramigna dell’occupazione: appena seminati hanno cominciato a espandersi e, nel corso di cinque decenni, hanno creato una maglia fitta, difficilmente estirpabile – non a caso rappresentano uno dei principali scogli per una soluzione pacifica e condivisa del conflitto israelo-palestinese. Quando cominciarono a essere costruite, le prime colonie erano come isole all’interno del mare alieno del territorio palestinese; pian piano si ramificate, trasformandosi in un arcipelago grazie alla costruzione del denso reticolo delle bypass roads; negli ultimi anni, soprattutto in alcune aree (per esempio, intorno a Gerusalemme), la loro progressiva crescita le ha trasformate in porzioni contigue di territorio, di modo che oggi, spesso, a essere isole all’interno di una mare estraneo sono i villaggi palestinesi. (Nell’ultimo decennio, poi, molte di queste colonie sono state fisicamente annesse a Israele a seguito della costruzione del Muro di Separazione).
E a fronte di tutto ciò che la dichiarazione di Netanyahu è inquietante: nasce probabilmente come una boutade elettorale, ma può rapidamente trasformarsi in un progetto politico – facilmente realizzabile nell’attuale panorama politico internazionale molto tollerante verso Israele, ma dagli esiti drammatici per i diritti dei palestinesi, la sicurezza degli israeliani, la stabilità del Medio Oriente.
(Pubblicato in versione breve su Huffington Post Italia, 12.09.2019)